Sei in:

Responsabilità dei revisori, sanzioni amministrative e penali

Pubblicato il: 27/01/2021 – 11:09

L’argomento non è solo importante come generale conoscenza del tema, ma necessario per chi svolge questa professione dati i notevoli rischi che essa comporta.

In questo capitolo vedremo sia le sanzioni generalmente applicabili dal d.lgs. 39/2010 che quelle specifiche per chi svolge esclusivamente questo ruolo e quelle applicabili in caso sia il Collegio Sindacale a svolgere l’incarico relativo in aggiunta alle proprie competenze.
Non tratteremo in modo approfondito il processo istruttorio a carico dei revisori
svolto da Consob e MeF, ma citeremo alcuni casi avvenuti in Italia.
Al di là delle norme in vigore va precisato che i provvedimenti di Consob e MeF che incidono sulla responsabilità del professionista portano sempre a danni d’immagine molto gravi e, spesso, indelebili per il professionista stesso che di frequente abban- dona l’attività di revisore.
Per inquadrare il problema è bene ricordare il profilo di responsabilità del revisore, previsto dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. 39/2010 che precisa che: “I revisori legali e le società di revisione legale rispondono in solido tra loro e con gli amministratori nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Nei rapporti interni tra i debitori solidali, essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato”.

RESPONSABILITÀ DEL REVISORE
art. 15 d.lgs. 39/2010

• I revisori legali e le società di revisione legale rispondono in solido tra loro e con gli ammi- nistratori nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione legale, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Nei rapporti interni tra i debitori solidali, essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato.
• Il responsabile della revisione ed i dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione contabile sono responsabili, in solido tra loro, e con la società di revisione legale, per i danni conseguenti da propri inadempimenti o da fatti illeciti nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati. Essi sono responsabili entro i limiti del proprio contributo effettivo al danno cagionato.
• La responsabilità si estende dal responsabile della revisione (di norma il socio) ai dipendenti che hanno collaborato all’attività di revisione legale che sono responsabili, in solido tra loro, e con la società di revisione, per i danni conseguenti da propri inadempimenti o da fatti illeciti nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati. Essi sono responsabili entro i limiti del proprio contributo effettivo al danno cagionato.
• Definire nelle singole fattispecie quale sia il danno effettivamente cagionato che dipende da una relazione di giudizio sul bilancio o altre informazioni pubbliche che hanno provocato nelle conoscenze degli utenti danni significativi non è di agevole determinazione in pratica, ma ad esempio il successivo fallimento dell’impresa un anno dopo una relazione positiva può crearne i presupposti.
• Il decreto prevede inoltre una prescrizione di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio cui si riferisce l’azione di risarcimento per l’azione di risarcimento del danno. Dati gli elevati turnover del personale nelle società di revi- sione (eccetto che per i soci) questo può essere un periodo molto lungo.

 

Questa situazione porta ad uno sviluppo del contenzioso civile e penale che parte dal professionista, chiamato dai PM a rispondere come “persona informata sui fatti” come avviene per gli amministratori con la differenza che, se il professionista avesse avuto elementi probativi validi e certi della malpratice li avrebbe probabilmente denunciati, ma se non era “informato sui fatti” in modo completo ed adeguato, non poteva farlo!
Prima di comminare le sanzioni è necessaria l’apertura di un procedimento specifico che può essere effettuato dalla Consob o dal MeF. L’art. 25 prevede l’iter della pro- cedura sanzionatoria e l’art. 26 quello svolto dalla Consob.
La procedura di applicazione delle sanzioni è comunque ispirata ai principi del con- traddittorio, della trasparenza degli atti istruttori, della verbalizzazione e della sepa- razione di funzioni tra il soggetto che istruisce la contestazione e colui che decide l’eventuale sanzione applicabile 1.
Il procedimento di contestazione prevede, in particolare, l’emissione di un atto che illustra le contestazioni mosse all’interessato che ha facoltà di difendersi presentan- do le proprie deduzioni difensive. In base all’esito del contraddittorio, il MEF decide se applicare o meno le sanzioni. Contro tale decisione è ammessa opposizione da presentare alla Corte di appello.

Le sanzioni applicabili
Vediamo ora quali sono le sanzioni applicabili al revisore, e chi le può applicare, in caso di irregolarità nello svolgimento dell’attività di revisione e di difetti nella comunicazione prevista per la corretta tenuta del Registro dei revisori. Tutto ciò è regolato dagli articoli dal 24 al 32 del d.lgs. 39/2010.
Le sanzioni sono sia di natura amministrativa sia di natura penale.
Le sanzioni amministrative possono essere applicate
a) sia dal Ministero dell’economia e delle finanze (“MeF”), nei confronti dei sog- getti che effettuano attività di revisione verso enti non di interesse pubblico,
b) sia dalla Consob, relativamente agli incarichi svolti dai revisori degli eIP. Le sanzioni penali sono invece inflitte dalla Magistratura ordinaria.

Quanto alle sanzioni di competenza del MeF si osserva che quest’ultimo, in caso di accertamento di irregolarità nella attività di revisione, o di carenti (o assenti) comunicazioni per l’aggiornamento del Registro dei revisori, ha il potere di appli- care al revisore 2 sanzioni amministrative particolarmente onerose, riassumibili nelle seguenti:
• sanzione amministrativa pecuniaria da E 1.000 a E 150.000;
• sospensione dal Registro, per un periodo non superiore a cinque anni, del respon- sabile della revisione;
• revoca di uno o più incarichi di revisione;
• divieto di accettare nuovi incarichi di revisione per un periodo non superiore a tre anni;
• cancellazione dal Registro.
La cancellazione dal Registro di revisori è applicabile sia nei confronti del revisore singolo sia della società di revisione ed è una misura gravissima in quanto impedisce per sempre esercizio di questa attività.
Con riferimento, invece, alle sanzioni di competenza della Consob si osserva che il d.lgs. 39/2010 le ha assegnato il potere di infliggere sanzioni al revisore in presenza di irregolarità nello svolgimento dell’attività di revisione solo nei confronti di EIP, ed in particolare le seguenti:
• sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 a Euro 500.000;
• proposta al MEF di sospensione dal Registro, per un periodo non superiore a cinque anni, del responsabile della revisione;
• revoca di uno o più incarichi di revisione;
• divieto di accettare nuovi incarichi di revisione per un periodo non superiore a tre anni;
• proposta al MEF di cancellazione dal Registro.
Dal confronto con le sanzioni applicabili dal MEF emergono due fatti importanti. Il primo attiene alla misura della sanzione pecuniaria.
La Consob, infatti, proprio per la maggior delicatezza di incarichi di revisione su EIP, è stata investita della possibilità di disporre sanzioni pecuniarie molto più one- rose di quelle del MEF. Inoltre, in caso di irregolarità in tema di indipendenza nello svolgimento dell’incarico di revisione, la Consob può applicare, oltre alla suddetta sanzione pecuniaria, anche la specifica sanzione prevista dal comma 7 dell’art. 17 del decreto (da E 100.000 a E 500.000); in questo caso, se applicasse il massimo delle due sanzioni si arriverebbe ad una multa di E 1.000.000!
Il secondo riguarda il fatto che la Consob deve ora proporre al MeF la sospensione o la cancellazione del revisore dal Registro mentre in precedenza procedeva in modo autonomo.
Alcuni esempi applicati in Italia riguardano queste situazioni.
Le fattispecie di reato penale per i revisori
Tutti i casi sopra esposti riguardano il reato di falsità nelle relazioni, ma il d.lgs. 39/2010 prevede anche specifiche fattispecie di reato penale per il revisore ed, in particolare:
• falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione le- gale (art. 27)
• corruzione dei revisori (art. 28)
• impedito controllo (art. 29)
• compensi illegali (art. 30)
• illeciti rapporti patrimoniali con la società assoggettata a revisione (art. 31).
Per tali reati è previsto che si possa procedere d’ufficio e non più in base a querela, come prima.

Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisio- ne legale (art. 27)
Il legislatore con il d.lgs. 39/2010 interviene sul reato di falsità nelle relazioni o co- municazioni della società di revisione.

La fattispecie prevede pene specifiche per i casi nei quali sia interessato alla revisione un EIP. Si sanziona la condotta del responsabile della revisione legale (socio) che scientemente attesta il falso od occulta informazioni relative alla situazione patrimoniale o finanziaria di soggetti collettivi sottoposti a revisione, con modalità idonee a condurre in errore i destinatari della comunicazione, per conseguire per sé stesso o per altri un ingiusto profitto.
Al pari dell’autore materiale della falsificazione o dell’occultamento, si prevede la responsabilità penale anche per chi dà o semplicemente promette “l’utilità” 3, nonché per una serie di soggetti qualificati dell’eIP sottoposto a revisione che abbiano con- corso a commettere il fatto penalmente rilevante, quali ad esempio l’Amministratore delegato, il direttore generale, i componenti dell’organo di amministrazione e organo di controllo dell’ente di interesse pubblico assoggettato a revisione.
La pena della reclusione fino a un anno si realizza nel caso in cui la condotta non abbia cagionato un danno patrimoniale per i destinatari delle comunicazioni a differenza della ipotesi delittuosa che ricorre, invece, qualora esso si verifichi. In questo caso la pena può arrivare sino a quattro anni.
Inoltre, se la falsità è posta in essere durante la revisione di un EIP, la pena della reclusione varia da uno a cinque anni, aumentati fino alla metà della pena base se il fatto è stato commesso per denaro o altra “utilità”, materialmente data o solamente promessa.
La stessa potrà essere comminata agli amministratori, direttori generali o sindaci della società revisionata qualora questi abbiano agito in concorso con il responsabile della revisione.
Infine, il decreto dispone l’aumento fino alla metà delle pene previste i reati verso EIP qualora le condotte abbiano determinato un danno rilevante per la società di revisione o per quella revisionata.
In caso di EIP l’ipotesi del “danno rilevante per i risparmiatori” si applica ad esem- pio immaginando che essi abbiano investito tutti i loro fondi in queste aziende come spesso succede 4.

Corruzione dei revisori (art. 28)
La corruzione del responsabile della revisione si realizza qualora questi ponga in essere oppure ometta atti in violazione degli obblighi derivanti dalle sue mansioni, dando o semplicemente promettendo qualsivoglia tipologia di “utilità”, e causando un danno alla società soggetta a revisione. In tale caso la pena è la reclusione fino a tre anni. 5
Se la corruzione viene posta in essere durante la revisione di un EIP, o di società da questi controllata, allora la pena si incrementa da un minimo di uno ad un massimo di cinque anni di reclusione. In tale ultimo caso la responsabilità è prevista per il responsabile della revisione nonché per gli amministratori, soci e dipendenti della società di revisione. L’art. 32, comma 1, del decreto dispone anche l’aumento fino alla metà delle pene previste per i fatti di cui al predetto comma qualora le condotte ivi previste determinino un danno di rilevante gravità per la società di revisione. La disposizione opera sempre che non sia configurabile la fattispecie di cui all’art. 30 – Compensi illegali. Si procede, d’ufficio, anche nei confronti del corruttore.

Impedito controllo (art. 29)
Il reato di impedito controllo, di cui all’art. 29 del decreto, ha modificato l’art. 2625 del codice civile prevedendo la responsabilità per gli amministratori che, occultando documenti o con altri artifici, impediscano od ostacolino l’attività di revisione.
La sanzione è costituita dall’ammenda, per un importo che può giungere fino a un
massimo di E 75.000.
È previsto, inoltre, che se la condotta di cui sopra ha cagionato un danno ai soci o a
terzi, si applica, oltre all’ammenda fino a € 75.000, anche l’arresto fino a 18 mesi.

In caso di revisione legale di EIP, le pene di cui sopra sono raddoppiate.

Compensi illegali (art. 30)
La fattispecie relativa alla percezione di compensi non dovuti si applica ai casi in cui il responsabile della revisione e i componenti dell’organo di amministrazione, i soci e i dipendenti della società di revisione percepiscono, direttamente o indiret- tamente, dalla società revisionata compensi in denaro o in altra forma, oltre quelli contrattualmente pattuiti. In tal caso essi sono puniti con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa da E 1.000 a E 100.000.
La stessa pena si applica ai componenti dell’organo di amministrazione, ai dirigenti e ai liquidatori della società revisionata che hanno corrisposto il compenso non do- vuto.
Il decreto prevede, infine, l’aumento fino alla metà delle pene previste se le condotte
determinano un danno grave per la società di revisione o per quella revisionata.
Il caso non si applica ai compensi aggiuntivi richiesti dal revisore a seguito di pre- sunti sintomi di frodi e fatti illeciti.

Illeciti rapporti patrimoniali con la società (art. 31)
L’art. 31 del d.lgs. 39/2012 conferma le sanzioni precedenti stabilendo la reclusione da uno a tre anni e la multa da E 206 a E 2.065, prevedendo la responsabilità di am- ministratori, soci responsabili della revisione e dipendenti della società di revisione che contraggono prestiti, sotto qualsiasi forma, sia direttamente che per interposta persona, con la società revisionata o con una società che la controlla, o ne è control- lata, o si fanno prestare da una di tali società garanzie per debiti propri.
Il decreto prevede, infine, l’aumento fino alla metà delle pene previste se le condotte
determinano un danno grave per la società di revisione o per quella revisionata.

Le fattispecie aggiuntive in caso di Collegio Sindacale incaricato an- che della revisione legale
esaminate le sanzioni specifiche previste dal d.lgs. 39/2010, nei diversi casi restano validi le sanzioni previste in caso sia il Collegio Sindacale a svolgere sia vigilanza che verifica e le responsabilità civili o quelle previste dall’organo professionale di appartenenza.
Responsabilità civili
La responsabilità civile del revisore può emergere da un suo comportamento doloso o colposo (negligenza professionale) che determina conseguenze talmente gravi da riflettersi sul giudizio espresso, arrecando ad altri un danno.
La responsabilità del revisore in sede civile è, pertanto, sanzionata con la condanna al risarcimento del danno prodotto come previsto dall’art. 2407 c.c.
La scelta operata dal legislatore è stata quindi quella di uniformare le regole applica- bili al collegio sindacale a quelle del revisore, sottolineando che devono “adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico” venendo così ad abbandonare il precedente richiamo alla “diligenza del mandatario”.
Si pone quindi il problema di definire la negligenza professionale e di chiarirne i presupposti. Prima di tutto è importante ricordare che le inadempienze e gli errori devono essere valutati in relazione alla natura della revisione. Essa consiste nello svolgere procedure di verifica stabilite dai principi di revisione (sondaggi documen- tali, conferme esterne, ispezioni fisiche, analisi critiche di dati, e via dicendo) allo scopo di esprimere un giudizio professionale in merito alla sostanziale conformità del bilancio alle norme di legge, interpretate ed integrate dai principi contabili di generale accettazione.
Questo significa che il sindaco/revisore è inadempiente se non ha applicato o ha applicato erroneamente i principi di revisione ISA Italia e se questo fatto ha avuto conseguenze rilevanti sulla correttezza del giudizio espresso.
Gli esempi sopra illustrati lo dimostrano. Per contro non è responsabile colui che non abbia potuto individuare tali errori o fatti fraudolenti riflessi nel bilancio, anche signi- ficativi, nonostante abbia diligentemente applicato i principi di revisione nello svolgi- mento del proprio incarico. Si pensi ai casi di frodi molto ben organizzate ed occultate che non sono normalmente evidenziabili con le normali procedure di revisione.
In sintesi, al revisore si possono applicare responsabilità per inadempienze o errori solo se si dimostra che egli non ha correttamente applicato i principi di revisione, ma non se, avendoli applicati, non sono emersi gli errori (voluti o meno) presenti in bilancio. In tal caso è esclusa ogni sua responsabilità che ricade in primis su chi ha compiuto tali “errori” (voluti o meno), redigendo un bilancio non conforme alle norme previste, ossia agli amministratori che sono responsabili della sua redazione ai sensi degli artt. 2380 e 2381 c.c.
In relazione alla natura dell’incarico, il revisore è responsabile solo del giudizio che emette sul bilancio stesso avendo osservato i principi di revisione.
In tal senso si ritiene che egli non assuma una “obbligazione di risultato”, ma piutto- sto una “obbligazione di mezzi”, nel senso che si impegna ad adottare gli strumenti necessari per esprimere il suo giudizio con un elevato grado di convincimento. La qualità del suo lavoro non si misura, in termini giuridici, in base al grado di soddi- sfazione del committente (il che porterebbe ad una obbligazione di risultato6) ma in base all’“adeguatezza” delle scelte delle procedure di verifica e degli atti compiuti di natura discrezionale, nel pieno rispetto dei principi di revisione.
È utile anche ricordare che l’attività di revisione non è finalizzata alla scoperta di fro- di ed irregolarità; anche se il revisore ha l’obbligo di adottare specifiche procedure nel caso sospetti l’esistenza di atti illeciti e di segnalare i fatti censurabili, il suo ruolo è di esprimere un giudizio di attendibilità fornendo il proprio parere professionale.
Non rientrano, pertanto, nei suoi compiti aspetti tipicamente investigativi propri del- la Magistratura, dei Pubblici Ministeri e degli organi di Polizia, né intercettazioni telefoniche, visite a sorpresa o perquisizioni all’interno o al di fuori della società revisionata.
In particolare, per quanto riguarda le frodi esse sono o potrebbero essere congegnate in modo da aggirare i normali controlli interni per eludere le verifiche operate dai revisori esterni. Pertanto, per verificare l’eventuale responsabilità, è necessario veri- ficare se questi ha pianificato e svolto l’incarico secondo la diligenza professionale richiesta. Esso potrà, infatti, essere sanzionato solo se sia dimostrato che gli atti il- leciti sarebbero stati identificati ove fossero state applicate correttamente le normali procedure di verifica.
La responsabilità contrattuale
Passiamo ora all’esame della responsabilità contrattuale, cioè all’esame dei soggetti danneggiati. Si tratta della società di revisione e con essa i suoi collaboratori e dipen- denti che hanno svolto l’incarico, che rispondono verso la società cliente, i soci ed i terzi dei danni derivanti dall’inadempimento dei doveri previsti dalla legge. Questi errori ed inadempienze possono essere di tali dimensioni e gravità da compromettere la validità del giudizio emesso e arrecano danno sia alla società revisionata (si pensi solo al danno di immagine in caso di giudizio di tipo negativo) sia ai terzi che utiliz- zano il bilancio per le proprie decisioni di investimento.
È importante distinguere almeno due situazioni:
• la responsabilità contrattuale, che deriva direttamente dal contratto stipulato dal revisore con il cliente che, tramite l’approvazione della Assemblea, lo ha con- ferito;
• la responsabilità extracontrattuale, che esula dal contratto.
Le proposte di revisione normalmente includono clausole relative a limiti alla re- sponsabilità contrattuale determinata in base a “multipli” dell’importo degli onorari pattuiti; tuttavia, non vi è alcuna disposizione normativa obbligatoria in merito.
La mancanza di limiti alle richieste di risarcimento di danni ha spesso portato a ri- chieste di risarcimento irrealistiche da parte delle società clienti nei confronti delle società di revisione con rilevanti danni di immagine per queste ultime oltre a grandi difficoltà per assicurare i propri rischi contrattuali.
La responsabilità extracontrattuale
La responsabilità extracontrattuale fra i soggetti che, pur non avendo stipulato un contratto, vantano interessi da tutelare relativamente ai risultati della revisione, ri- guarda i soci e, soprattutto, quelli di minoranza per i quali le uniche informazioni disponibili sono quelle contenute nel bilancio oggetto di revisione. Molte altre classi di interessi sono portatori di esigenze conoscitive sul bilancio (istituti di credito, clienti, fornitori, dipendenti, pubblica amministrazione e via dicendo): verso costoro il revisore è responsabile per danni causati da negligenza, dolo o colpa nello svolgi- mento del proprio incarico.
Volendo spostare l’attenzione ai profili di governance si nota anche una responsabi- lità del revisore nei confronti dei soggetti che partecipano alla vita dell’impresa in qualità di organo di controllo o di gestione.
In particolare, le responsabilità nei confronti degli organi di controllo quali il Collegio
Sindacale, i revisori interni e gli amministratori si esplicita come una responsabilità di natura informativa 7, dal punto di vista degli aspetti della completezza e della correttez- za. Quale parte del sistema dei controlli, il revisore è responsabile nei confronti degli altri soggetti con funzioni di controllo per l’assoluta mancanza o incompletezza del- le informazioni fornite nello stesso modo in cui essi lo sono nei suoi confronti.
Nei confronti degli organi di gestione il revisore è, invece, responsabile per la man- cata collaborazione che può manifestarsi, ad esempio, nel non aver consigliato inter- venti necessari al miglioramento delle strutture amministrativo-contabili o del siste- ma di controllo interno. Il principio ISA Italia n. 265 – Comunicazione delle carenze nelle attività di controllo interno ai responsabili di governance e alla direzione – prevede una comunicazione scritta, laddove la situazione lo richieda 8.
Allo stesso modo il revisore è responsabile per la violazione della divulgazione di dati e notizie riservate di cui è venuto in possesso, tranne ovviamente quelle la cui diffusione sia stata espressamente richiesta dalle autorità di vigilanza o da specifiche disposizioni di legge.

La quantificazione del danno
Il dover quantificare il danno è un aspetto di non facile determinazione. Innanzitutto, è necessario valutare la significatività dell’errore, ossia l’ampiezza “della omissione o dell’errore contenuto nelle informazioni contabili”. Esso deve essere tale che “alla luce del singolo caso, il giudizio di una persona ragionevole che si fosse affidata sulla validità delle informazioni fornite cambierebbe se le informazioni reali fossero differenti”; in poche parole, l’errore deve essere molto rilevante.
Questo fatto ha creato negli ultimi tempi un notevole incremento del contenzioso civile avente per oggetto cause per danni a società di revisione con rilevanti somme chieste a risarcimento che, oltre ad essere successivamente oggetto di transazione tra le parti per valori di molto inferiori, hanno comunque prodotto una significativa crescita dei premi assicurativi e delle franchigie con conseguenti incrementi dei costi della revisione stessa a danno del pubblico.

Responsabilità penali
Non bisogna inoltre dimenticare alcune norme del codice civile che si applicano a tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nel controllo delle imprese e, quindi, anche al Col- legio Sindacale in caso in cui sia anche assegnatario dell’incarico di revisione legale.
Vediamo ora i singoli articoli, le pene previste e i soggetti interessati.

La revisione di questa norma si applica solo alle società non quotate. In particolare la previsione contenuta nell’articolo 2621 riguarda il fatto di esporre consapevolmen-

1. Art. 2621 – False comunicazioni sociali – “Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo con- cretamente idoneo altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.
La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi”. te “fatti materiali rilevanti” non corrispondenti al vero con lo scopo di ingannare il pubblico o i soci nel bilancio e nelle altre informazioni previste dalla legge. La discussione su cosa sono o meno “fatti materiali rilevanti” sarà oggetto in futuro di diverse interpretazioni. Per tali reati è prevista la reclusione da un anno a cinque anni. In effetti si tratta di circostanze difficili da circoscrivere che vanno valutate tenendo conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta relativa.

Gli articoli 2621-bis e ter illustrano le situazioni di lieve entità. È la prima volta che nella nostra legislazione viene correttamente posto il problema di non equiparare la stessa sanzione su situazioni di lieve entità ad altre di maggiore importanza. È quindi necessario considerare la natura, le dimensioni della società e le modalità e gli effetti della condotta, lasciando al giudice tale valutazione per i reati di particolare tenuità come richiesto dall’art. 2621-ter. Per i fatti di lieve entità si prevede che per tali reati si proceda a querela di parte.

L’art. 2622, disciplinando la stessa materia, prevede l’esistenza dello stesso reato di cui all’art. 2621 che è quello di esporre consapevolmente fatti materiali rilevanti non corrispondenti al vero con lo scopo di ingannare il pubblico o i soci nel bilancio e nelle altre informazioni previste dalla legge. Tale reato ha natura delittuosa e viene differenziato nella pena e nella procedibilità per le società quotate.
La norma delle false comunicazioni societarie tutela la veridicità e completezza delle informazioni per l’esercizio dell’attività economica e per il rispetto di soggetti che non possono intervenire, in modo alcuno, sulla formazione delle decisioni aziendali, per esempio il pubblico in genere.
Sono considerati “fatti materiali rilevanti” quei fatti che portano a comunicazioni sociali dirette ai soci o al “pubblico”, con esclusione quindi di quelle tra organi so- ciali – o rivolte a organi sociali di altre società, ancorché collegate o del medesimo gruppo – e quelle indirizzate a un unico soggetto o a più soggetti determinati, non- ché, ovviamente, quelle rese all’Amministrazione finanziaria dello Stato.
L’inserimento, tra i destinatari, del “pubblico” comporta qualche problema interpre- tativo, anche se per “pubblico” si intende quella fascia di interessi non solo “inter- ni” alle società, ma anche e soprattutto “esterni”, in cui potrebbero essere inclusi i creditori dell’azienda, i soci di minoranza, i risparmiatori o investitori della società quando questa sia quotata nei mercati ufficiali e il mercato in senso lato.
Inoltre, nella definizione di “comunicazioni sociali” sono comprese le notizie dirette all’Assemblea dei soci o ai terzi interessati (ad esempio i comunicati stampa) oltre alle dichiarazioni incluse nei documenti contabili per alterare, in modo fraudolento, la verità 12.
In particolare, il reato di false comunicazioni sociali, a differenza della truffa, è con- siderato un “reato di pericolo”, nel senso che per manifestarsi è sufficiente vi sia la possibilità che i soci o il pubblico siano tratti in inganno dalle false dichiarazioni sulla reale situazione patrimoniale della società, messe in atto per conseguire un vantaggio. Il vantaggio può anche essere rappresentato dal desiderio di mantenere un certo valore alle azioni quotate in borsa, non necessariamente uno stretto aspetto di tipo monetario.
Tale reato, tuttavia, non è pluri-offensivo, cioè è posto a tutela solo degli interessati dei soci e del pubblico e non di altri soggetti quali, ad esempio, l’Amministrazione finanziaria.
Di conseguenza, non è punibile come reato di false comunicazioni sociali un com- portamento illecito motivato solo da finalità tributarie 13. Se, però, il dolo degli am- ministratori investe entrambi – Amministrazione finanziaria e soci – e, quindi, alla volontà di evadere le imposte si accompagna un ulteriore intento di frode verso i soci o il pubblico, si configurano entrambi i reati e quindi un concorso tra gli stessi.
Il danno patrimoniale comporta, per i soggetti “colpiti” dal falso, conseguenze eco- nomiche rappresentate da esborsi, da mancati guadagni, da rinunce e via dicendo.
A puro titolo esemplificativo, le ipotesi di falsità possono essere suddivise in diverse categorie, individuabili principalmente in operazioni di “scambio” relative alle se- guenti aree:
• produzione;
• finanziamenti;
• capitale;
• valutazione di elementi inclusi in bilancio.
Appartengono alla categoria degli atti derivanti da operazioni di scambio relative alla produzione:
• vendite fittizie di beni, in Italia o all’estero, realizzate con:
– emissione di fatture false;
– falsificazione delle quantità cedute e dei loro prezzi;
– sottofatturazioni rispetto al valore effettivo della merce con ristorno della dif- ferenza tra il valore effettivo e quello fatturato;
– vendite cui segue una falsa contestazione, da parte del cliente, sulla confor-
mità o sulla qualità della merce per ridurre l’importo ufficialmente incassato;
• emissione di false fatture per prestazioni di servizio, effettuate per aumentare i ricavi ovvero, al contrario, utilizzo di fittizie prestazioni di servizi per procurarsi ingiusti- ficati fondi (in Italia o all’estero). Quest’ultimo comportamento può concretizzarsi, per esempio, con il ricorso a pagamenti effettuati a titolo di sponsorizzazione o per prestazioni di intermediazione, consulenza, servizi di coordinamento o di regia;
• vendite di beni (mobili e immobili) a prezzi di favore nei confronti di un inter- mediario compiacente il quale, poi, rivende lo stesso bene per il giusto prezzo e accredita altrove la differenza in tutto o in parte al primo soggetto;
• operazioni fittizie di leasing o di lease back attuate con intermediari e società finanziarie compiacenti per effettuare falsi pagamenti a titolo di locazione finan- ziaria;
• incassi realizzati e non contabilizzati a fronte di vendite effettuate e fatturate, ov- vero di incassi realizzati a fronte di operazioni non fatturate (vendite in “nero”), pagamenti fittizi di fatture ricevute per operazioni inesistenti emesse da soggetti nazionali o esteri a carico dei quali non è posto alcun onere tributario (per esem- pio perché il loro bilancio si chiuderebbe altrimenti in perdita oppure perché il paese di loro residenza non assoggetta a tassazione il reddito conseguito);
• corresponsione di penali fittizie in relazione a contratti dei quali è stato voluta- mente procurato l’inadempimento;
• mancata contabilizzazione di acquisti per approvvigionarsi delle merci in modo
“non ufficiale”;
• acquisti fittizi di beni apparenti (cioè di beni formalmente appartenenti all’azien- da ma in realtà nella disponibilità di altri soggetti). Gli acquisti possono essere effettuati in Italia o all’estero. Il fornitore, incassando anche il corrispettivo, potrà costituire a favore del soggetto una disponibilità finanziaria da utilizzarsi per suc- cessive e diverse operazioni;
• simulazione di liti conseguenti a operazioni regolarmente eseguite e fatturate, ovvero simulazione di contratti.
Appartengono alla categoria delle operazioni di scambio inerenti l’area finanziaria
(attivo e passivo):
• la cessione di partecipazioni o di altri strumenti finanziari effettuata a favore di un intermediario compiacente, per un prezzo inferiore al loro valore effet- tivo e la successiva cessione a terzi, da parte dell’intermediario, a prezzi ef- fettivi. La differenza di prezzo ritorna, grazie all’intermediario compiacente, nella disponibilità del primo cedente, che consegue, in questo modo, un fondo riservato;
• le operazioni cosiddette di back to back, con le quali si realizza un contratto fiduciario con garanzia collaterale. Le caratteristiche dell’operazione sono le se- guenti: la società A costituisce un deposito presso un intermediario compiacen- te, contabilizzandolo come credito verso banche, a garanzia di un finanziamento che l’intermediario concede a una terza società, generalmente partecipata dalla società A. La partecipata metterà, riservatamente, il denaro così ricevuto a dispo- sizione della società A, che potrà, in questo modo, utilizzarlo per scopi illeciti, gestendo fondi che non appaiono nel suo bilancio;
• le operazioni con le quali il soggetto controllante gestisce la propria liquidità e la liquidità delle società appartenenti al gruppo di società da essa controllate (cash pooling). Dette operazioni sono utilizzate nella normale prassi aziendale per ge- stire al meglio e unitariamente le risorse finanziarie del gruppo, minimizzando il costo delle transazioni e del denaro ed evitando la contemporanea presenza di scoperti bancari a carico di talune società e di disponibilità a favore di altre. L’u- so scorretto dello strumento prevede, viceversa, che sui saldi intercompany non vengano calcolati interessi attivi in misura esorbitante a favore della capogruppo residente in territori fiscalmente privilegiati;
• l’utilizzo di centri di rifatturazione collocati in territori fiscalmente privilegiati che, per conto delle società appartenenti a un gruppo di imprese, provvedono ad acquistare dalle società stesse beni (generalmente vicini al costo di produzione) per rifatturarli a prezzi di mercato all’interno del gruppo o ai clienti finali;
• le operazioni con le quali viene mutata la natura giuridica del contratto origina- riamente stipulato tra i contraenti. È il caso in cui la società capogruppo vende beni a una società controllata, la quale non dispone dei mezzi finanziari per pa- gare; dopo aver realizzato, in tal modo, un maggior volume di ricavi, la società controllante potrà rinunciare al suo credito, aumentando, per esempio, il capitale della società controllata;
• la stipula simultanea di contratti d’opzione e di altri contratti su titoli o strumenti finanziari, di segno opposto tra di loro (vendita e acquisto), e la contabilizzazione del solo contratto che genererà effetti negativi sul conto economico, ignorando quello che produrrà effetti positivi. La ratio dell’operazione è di creare, presso l’intermediario, fondi riservati di importo pari al contratto che ha generato effetti negativi;
• le operazioni nel settore assicurativo riguardanti la stipula di false polizze, la richiesta di indennizzo per sinistri mai avvenuti, il simulato riscatto anticipato di alcune polizze.
Appartengono alla categoria delle operazioni relative all’area del capitale le opera- zioni volte ad aggirare le norme sulla consistenza del capitale sociale, sull’acquisto di azioni proprie e sulla distribuzione degli utili. Esse consistono in:
• conferimenti, nel caso di costituzione o aumento del capitale sociale, di beni il cui valore reale è inferiore a quello per il quale vengono emesse le azioni o quote del- la società conferitaria. L’operazione è resa possibile dalla compiacente relazione di stima dell’esperto nominato dal presidente del Tribunale ai sensi dell’art. 2343
c.c. e ha come conseguenza di attribuire ai soci conferenti quote o azioni per un numero superiore a quello effettivamente loro spettante;
• conferimenti dissimulati sotto l’aspetto della cessione di beni. L’ipotesi si manifesta quando una società, volendo conferire beni per valori superiori a
quelli di mercato a una società controllata, mette in opera una vendita simula- ta, grazie alla quale incassa fittiziamente un prezzo che poi versa nelle casse della società controllata a titolo di aumento di capitale. Per la società con- trollata non vi è alcun pregiudizio di carattere finanziario, perché le somme pagate corrispondono alle somme ricevute, ma la società controllate, con l’o- perazione in oggetto, iscrive nel suo bilancio maggiori ricavi a seguito della cessione dei beni e, successivamente, una quota di partecipazione superiore al suo valore effettivo;
• acquisto di proprie azioni corrispondendo ai soci un prezzo superiore a quello effettivo. La differenza tra i due prezzi, opportunamente ristornata dai soci alla società, costituirà, per quest’ultima un fondo “fuori bilancio”;
• simulata distribuzione di utili. L’ipotesi si concretizza, per esempio, con l’acqui- sto di beni dai soci (per i quali questi ultimi non realizzano redditi imponibili) a prezzi spesso superiori a quelli effettivi, ovvero con la cessione di beni della società a un prezzo inferiore a quello reale, al fine di consentire ai soci cessionari la successiva rivendita del bene a prezzo effettivo.
Appartengono, infine, alla categoria delle ipotesi di falsità dipendenti da valutazioni
le seguenti ipotesi:
• sovrastima del valore delle immobilizzazioni materiali e, soprattutto, delle im- mobilizzazioni immateriali. Queste ultime sono costituite da un coacervo di voci di natura e carattere diversi, per le quali occorrerà verificare, in primo luogo, la loro effettiva utilità pluriennale. Tra le immobilizzazioni immateriali è possibile annoverare:
– oneri pluriennali, per i quali occorrerà verificare anche l’effettività della pre- stazione ricevuta;
– beni immateriali, per i quali occorrerà, in modo specifico, verificare la loro sostanza contrattuale ed economica, e cioè verificare che essi dipendano da contratti effettivi e che rivestano una reale utilità economica per il sog- getto;
– avviamento, per il quale si dovrà verificare che esso sia stato acquisito a titolo oneroso, e che il valore indicato in bilancio corrisponda al costo effettivamen- te sostenuto.
Per le immobilizzazioni materiali sarà necessario verificare, ad esempio, che esse siano state realmente acquisite, che il loro valore corrisponda con quanto iscritto in bilancio, che eventuali rivalutazioni iscritte ad incremento del loro valore non ecce- dano il limite del valore normale dell’immobilizzazione medesima, che non vi siano elementi che non possano modificare i criteri di valutazione in precedenza adottati (art. 2426, comma 1, n. 3) quali, ad esempio, la variazione della classificazione ur banistica di un terreno, la rapida obsolescenza tecnologica di un cespite, la perdita di diritti su un bene (licenze scadute, diritti d’autore, ecc.). Particolare attenzione dovrà essere posta nel caso di beni costruiti in economia, per i quali dovrà essere verificato l’effettivo sostenimento, da parte dell’ente, dei costi della sua realizzazione e l’effet- tivo impiego del materiali e del lavoro necessari.
Un’ulteriore ipotesi di falsità riguarda:
• l’errata valutazione del valore delle immobilizzazioni finanziarie. In questo caso la falsità potrà riguardare sia la sovrastima del valore di una partecipazione o di un titolo sia la loro sottostima;
• l’errata valutazione dei crediti e delle rimanenze. Nel primo caso la falsità potrà riguardare l’iscrizione in bilancio di somme certamente non più incassabili, ov- vero la mancata iscrizione di fondi di accantonamento per non rilevare possibili inesigibilità dei crediti medesimi. Nel casi di valutazione delle rimanenze, le ipo- tesi di falsità potranno riguardare sia l’iscrizione del loro valore in modo difforme da quanto previsto dall’art. 2426, comma 1, n. 9, sia l’iscrizione di quantità che per eccesso o difetto sono diverse da quelle reali;
• l’errata valutazione di altre poste, quali, per esempio, le disponibilità liquide o i debiti, e il mancato accantonamento di fondi per rischi e oneri la cui iscrizione è obbligatoria in relazione al verificarsi di determinati avvenimenti, così come la loro iscrizione per importi superiori a quelli corretti.
Nella revisione delle norme in corso per le società quotate, a cui si equiparano le società emittenti strumenti finanziari negoziati e le loro controllanti, viene introdotta una disciplina di maggior rigore: la reclusione da tre a otto anni.
Appare per l’assenza della parola “fatti rilevanti” per le società quotate che ciò potrebbe far prevedere una estensione della rilevanza penale per le società quotate anche per fatti non veritieri ritenuti di scarsa rilevanza, il che appare francamente assurdo.
Le nuove fattispecie di reati in discussione, riferite sia alle società quotate che non, richiedono in ultimo che le condotte di esposizione o di omissione di fatti mate- riali non rispondenti al vero siano concretamente idonee a indurre altri in errore. Tali delitti si configurano come reati di pericolo e non di danno in quanto non è necessario dimostrare l’effettivo nocumento derivato dai comportamenti contabili illeciti.

 

Per le due fattispecie sopra citate non sono previste sanzioni amministrative ex d.lgs. 231/2001 a carico dell’ente, ma solo sanzioni a carico del soggetto che ha tenuto il comportamento omissivo.

Si tratta di tipologie di reato che rientrano nell’ambito dei reati contro la Pubblica Amministrazione e, in quanto tali, presuppongono l’instaurazione di rapporti con soggetti pubblici e/o l’esercizio di una pubblica funzione o di un pubblico servizio. Particolarmente gravi se essi rientrano nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – Responsa- bilità amministrative delle persone giuridiche.
Nel caso della revisione potrebbe riferirsi al fatto che il revisore prometta utilità (ad esempio una certo tipo di giudizio senza eccezioni) senza aver svolto ancora alcun lavoro di revisione.
Pur non essendo il revisore un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni,
comunque è bene evitare di trovarsi in tali situazioni
Richiamiamo alcuni aspetti ripresi dal d.lgs. 231 che potrebbero riferirsi anche all’ambito della revisione.
In particolare, in presenza di reati propri, il cui soggetto attivo è di regola un pubbli- co funzionario. L’inserimento come delitto presupposto nel decreto 231 (art. 25) si giustifica poiché la legge punisce – in presenza di determinate circostanze – anche il privato che concorre con il soggetto pubblico nella realizzazione del reato, come nel caso di induzione indebita a dare o promettere utilità o della corruzione attiva, su cui ci si soffermerà in seguito.
Inoltre, nel nostro ordinamento non è raro che la qualità di soggetto pubblico (pub blico ufficiale e incaricato di pubblico servizio) sia estesa anche nei confronti di sog- getti privati e, quindi, che tale qualifica sia attribuita ad esponenti di realtà societarie a carattere privato, investite dello svolgimento di pubblici servizi o di pubbliche funzioni, nei limiti e in relazione alle attività aziendali riconducibili all’assolvimento di tali compiti, come anche di seguito specificato.
A tale proposito si deve ricordare che, secondo l’attuale disciplina, ciò che rileva è, infat- ti, l’attività svolta in concreto e non la natura giuridica, pubblica o privata, del soggetto.
ne consegue che il nostro ordinamento accoglie una nozione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio di tipo “oggettivo”, che comporta sia la necessità di una valutazione “caso per caso” – peraltro non sempre agevole – delle singole fun- zioni ed attività svolte, sia per determinare la qualificazione del soggetto interessato (pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio o semplice privato)
Sono incaricati di un pubblico servizio (art. 358 c.p.) coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio e che, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine o di prestazione di un’attività mera- mente materiale (es. erogazione servizi di vario tipo sulla base di convenzioni con Mi- nisteri o altri soggetti annoverabili tra le P.A. che non comportino poteri certificativi).
In conclusione è possibile dedurre che, limitando per il momento l’analisi ai soli reati di natura corruttiva, in taluni casi possono configurarsi sia corruzioni c.d. attive (ad es. l’amministratore o il dipendente della singola società corrompe un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio per far ottenere all’ente qualcosa), sia corruzioni c.d. passive (ad es. l’esponente dell’ente – nello svolgimento di un’attività di natura “pub- blicistica” – riceve denaro per compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio).
Tale ultima forma d’illecito, nell’ottica del decreto 231, si verificherà con minore frequenza della prima, giacché nella maggior parte dei casi si tratterà di corruzioni realizzate nell’esclusivo interesse della persona fisica senza, cioè, che sia configura- bile un interesse o vantaggio dell’ente. Tuttavia, anche in questi casi, non è possibile escludere che si verifichino ipotesi di corruzione passiva che generano responsabilità dell’ente (ad es. laddove quest’ultimo abbia tratto un vantaggio – eventualmente anche indiretto – dalla commissione del reato da parte del proprio esponente) e ciò, verosimilmente, si potrà verificare proprio con riferimento a quei soggetti, di diritto privato o di diritto pubblico (ad es. i c.d. enti pubblici economici) la cui attività sia, in tutto o in parte, da considerare come pubblica funzione o pubblico servizio.
Nell’ambito dei reati in esame, è recentemente intervenuta la legge 6 novembre 2012,
n. 190 contenente nuove “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della cor- ruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” (c.d. legge anticorruzione).

 

Tale provvedimento (di ratifica della convenzione di Strasburgo del 1999), oltre a de- terminare importanti effetti nel più ampio contesto normativo, opera nell’ottica di un complessivo rafforzamento degli strumenti volti a contrastare i fenomeni corruttivi, anche mediante un inasprimento del trattamento.
Ai nostri fini, è importante distinguere le fattispecie in esame e considerarne le dif- ferenti caratteristiche strutturali. Al riguardo, la Corte di Cassazione (sezioni unite, sentenza n. 12228 del 14 marzo 2014) ha indicato i principi di diritto da osservare per individuare la linea di confine tra i diversi illeciti, evidenziando che:
(i) la differenza tra il reato di concussione (art. 317 c.p.) e quello di induzione in- debita a dare o promettere utilità (319-quater c.p.) riguarda i soggetti attivi e le modalità di perseguimento del risultato o della promessa di utilità;
(ii) infatti, la concussione consiste nell’abuso costrittivo attuato dal pubblico uf- ficiale mediante violenza o minaccia di un danno contra ius che determina la soggezione psicologica del destinatario – ma non l’annullamento della sua li- bertà di autodeterminazione – il quale, senza riceverne alcun vantaggio, si trova di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o promessa dell’utilità;
(iii) l’induzione indebita si realizza, invece, nel caso di abuso induttivo del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che, con una condotta di persuasione, inganno o pressione morale condiziona in modo più tenue la volontà del de- stinatario; quest’ultimo, pur disponendo di un margine decisionale più ampio, finisce per accettare la richiesta della prestazione indebita, nella prospettiva di conseguire un tornaconto personale.
I reati di concussione e induzione indebita si distinguono dalle fattispecie corruttive in quanto i primi due delitti presuppongono una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico idonea a determinare la soggezione psicologica del privato, costretto o indotto alla dazione o promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo viene concluso liberamente e consapevolmente dalle parti.
Queste si trovano su un piano di parità, nel senso che l’accordo è in grado di produrre
vantaggi reciproci per entrambi i soggetti che lo pongano in essere.

La normativa attuale prevede che i soggetti del reato non sono più solo gli ammini- stratori, ma chiunque concorra alla formazione di maggioranze che in altro modo non si sarebbero raggiunte, per il tramite di atti simulati o fraudolenti.
In pratica è assai raro che un revisore possa esercitare una illecita influenza sull’As- semblea, ma ne esaminiamo la fattispecie per pura completezza.

Il reato si manifesta nel momento in cui in Assemblea si ottiene una maggioranza che non vi sarebbe stata qualora si fossero dedotti, dalla conta dei voti totali, i voti illecitamente ottenuti.
La sanzione amministrativa prevista è variabile.

La norma prevede che “chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere ope- razioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile al- terazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamen- tato, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni”.
Per i soggetti del reato, è opportuno evidenziare come la disciplina preveda che “chiunque” può porre in essere le condotte vietate dalla norma in esame.
Inoltre, secondo quanto previsto dalla normativa codicistica (art. 2637), la notizia è falsa solo se è “price sensitive”.
L’art. 9 della legge n. 62/2005 (Legge comunitaria per il 2004) ha infatti recepito la direttiva 2003/6/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003, rela- tiva all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (c.d. abusi di mercato) e ha introdotto l’art. 25-sexies nel decreto n. 231/2001, estendendo l’ambi- to della responsabilità amministrativa degli enti alle condotte che integrano tali abusi.
Il sistema sanzionatorio definito dalla Legge comunitaria per i gli abusi di mercato si estende oltre il profilo della responsabilità ai sensi del decreto 231. Infatti, esso prevede sanzioni amministrative a carico sia della persona fisica che della società per illeciti amministrativi, nonché sanzioni penali a carico della persona fisica e sanzioni amministrative a carico della società, nel caso in cui l’illecito assuma rilevanza penale.
La Legge comunitaria interviene sia sul codice civile che sul Testo Unico dell’inter-
mediazione finanziaria (d.lgs. n. 58/1998, c.d. TUF).
Con riferimento al codice civile, il reato di aggiotaggio si applica ora ai casi posti in essere rispetto a “strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato”. Nel caso di strumenti finanziari quotati si applicano, invece, le norme del TUF.
Interventi più importanti hanno riguardato il TUF.
In primo luogo, l’art. 114 relativo alle comunicazioni al pubblico, obbliga gli emit- tenti quotati e i soggetti che li controllano a comunicare al pubblico, senza in-

dugio, le informazioni privilegiate relative a detti emittenti o alle società da essi controllate.
La definizione di informazioni privilegiate è contenuta nell’ art. 181 TUF, ai sensi del quale “per informazione privilegiata si intende un’informazione di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti strumenti finanziari o uno o più strumenti finanziari, che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari”. 15
Inoltre, l’art. 114 TUIF rinvia la definizione delle modalità della comunicazione alla Consob, che le ha stabilite nel Regolamento di attuazione del TUIF, concernente la di- sciplina degli emittenti (c.d. Regolamento emittenti) e nel Regolamento di attuazione del TUIF e del d.lgs. n. 213/1998 in materia di mercati (c.d. Regolamento mercati). La norma rinvia altresì alla regolamentazione Consob la disciplina dei casi in cui i sog- getti obbligati possano ritardare la comunicazione obbligatoria. Per l’inottemperanza all’obbligo di comunicazione è prevista una sanzione pecuniaria (art. 193 TUIF).
Infine, l’art. 115-bis del TUIF prevede che i soggetti obbligati alla comunicazione devono istituire e mantenere regolarmente aggiornato un Registro delle persone che, in ragione dell’attività lavorativa o professionale ovvero in ragione delle funzioni svolte, hanno accesso alle informazioni privilegiate.
Oltre all’obbligo di comunicazione delle informazioni privilegiate, la normativa in esame disciplina anche gli illeciti di abuso di informazioni privilegiate e manipo- lazione del mercato, prevedendo, come anticipato, sanzioni sia penali che ammini- strative.
In particolare, mentre gli artt. 184 e 185 TUF disciplinano, rispettivamente, il reato di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, gli artt. 187-bis e 187-ter TUF (introdotti dalla Legge comunitaria) prevedono, rispettiva- mente, gli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipo- lazione del mercato.
Questi ultimi illeciti sono puniti – salve le relative sanzioni penali applicabili quando il fatto integra un reato – con sanzioni amministrative pecuniarie. Si evidenzia che, trattandosi di illeciti amministrativi, le sanzioni previste dal TUIF si applicano anche quando le condotte richiamate sono poste in essere a titolo di mera colpa. Il potere di comminare tali sanzioni amministrative è affidato alla Consob dall’art. 187-bis.
Il sistema sanzionatorio, sul piano amministrativo, si completa con la previsione
dell’art. 187-quinquies TUF.

 

La disciplina della responsabilità dell’ente e di rimando del revisore, se applicabile, con riguardo alle nuove fattispecie di illecito è articolata su due piani:
– l’art. 187-quinquies del TUF prevede che la Consob possa applicare sanzioni amministrative pecuniarie da 100 mila a 15 milioni di euro ovvero da 100 mila a 25 milioni di euro, rispettivamente per gli illeciti di abuso di informazioni pri- vilegiate e di manipolazione del mercato e che la sanzione può essere aumenta- ta fino a dieci volte il profitto o il prodotto conseguito dall’ente a seguito della commissione dell’illecito, se il profitto o il prodotto siano di rilevante entità;
– l’art. 25-sexies del decreto n. 231/2001 stabilisce che il giudice, in sede pe- nale, possa applicare una sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, incrementabile fino a dieci volte il profitto o il prodotto conseguito dall’ente a seguito della commissione del reato, se questi siano di rilevante entità. Non sono previste sanzioni interdittive a carico dell’ente. Se la fattispecie di illecito presupposto assume rilevanza penale, l’eventuale responsabilità dell’ente sarà accertata in sede giudiziaria; se invece si tratta di un illecito amministrativo – posto in essere comunque nell’interesse o a vantaggio dell’ente – l’accertamen- to e l’applicazione delle relative sanzioni spetterà alla Consob. Al riguardo, il TUIF chiarisce i rapporti tra i procedimenti amministrativo e penale (Capo V, artt. 187-decies e ss.) e, con riferimento ai profili di accertamento delle respon- sabilità dei soggetti coinvolti, stabilisce che “il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all’art. 187-septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione”.
Pertanto, una stessa fattispecie/notizia di illecito potrebbe contestualmente essere oggetto di un procedimento penale dinanzi al giudice ordinario e di un procedi- mento amministrativo presso la Consob, con un conseguente accertamento della responsabilità dell’ente per la medesima fattispecie sia in sede giudiziaria che am- ministrativa.

Detto articolo tutela le funzioni di garanzia e controllo, attribuite dalla legge alle au- torità pubbliche di vigilanza, che verrebbero pregiudicate da informazioni mendaci o dall’omissione di informazioni circa la reale situazione economico-patrimoniale delle società.
Si tratta di un reato tipico commesso esclusivamente da amministratori, direttori ge- nerali, sindaci e liquidatori di società, enti e soggetti sottoposti per legge alle autorità

pubbliche di vigilanza. Che, come noto, sono la Consob, il MeF, l’IVASS e la Banca
d’Italia.
Il reato può essere commesso con due distinte modalità:
• comunicazione all’autorità di vigilanza di fatti non rispondenti al vero rispetto alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dell’impresa o del fraudo- lento occultamento di tali situazioni;
• comportamento, anche omissivo, che sia intenzionalmente diretto a ostacolare le funzioni delle autorità di vigilanza. 16

 

 

Pubblicato il: 2019-07-22 10:04:18

Tag correlati

logo_footer_revilaw
La Revisione Legale e i servizi di Assurance rafforzano la trasparenza e la credibilità delle aziende, hanno l'obiettivo di dare comfort alle informazioni di natura sia finanziaria sia non finanziaria e rappresentano un elemento di comunicazione qualificata verso gli stakeholder, azionisti, clienti, fornitori, investitori e regulators. Una leva per conseguire un importante vantaggio competitivo nel mercato dei capitali, nell'ambito di intese commerciali e nel percorso di crescita delle aziende. Revilaw srl - Revisione Legale offre molteplici servizi, altamente qualificati, alle aziende del tessuto economico italiano che vedono nella revisione del bilancio un'occasione per la crescita manageriale, la trasparenza e la competitività.


Privacy policy - Cookie policy
Copyright © 2020, Revilaw SRL. Tutti i diritti riservati.
P.I. 04641610235 Sede Legale: Via XX Settembre, 9 – 37129 Verona
Tel (+39) 045 8010734
Design: cfweb